La New York che s’innamora
della coda alla vaccinara
Gli chef americani che hanno inventato le post-trattorie
Autumn in New York (è anche il titolo di un film strappalacrime con Richard Gere che fa il proprietario di un ristorante) ma anche inverno, volendo. New York è bellissima tra gli svolazzi delle foglie gialle e la prima neve. A questo proposito, il turista italiano all’estero si divide in due categorie: quello che non vuole mangiare italiano, quello che s’infila nel primo ristorante battente bandiera tricolore che trova. Ecco, questi dieci indirizzi (nove di Manhattan e uno di Brooklyn) mettono d’accordo le due fazioni: si mangia italiano ma non cucinato da italiani. Parliamo di grande cucina, di grandi prodotti e di grandi cuochi a stelle strisce che scelgono la nostra cultura enogastronomica. I nostri titoli non faranno faville a Wall Street, ma l’italian way al mangiare (bene) veleggia col vento in coppa (piacentina). Eataly è un successo: lì, due settimane fa si è svolta la seconda edizione di Identità New York, l’edizione americana di Identità Golose, propaggine oltre oceano del grande congresso di cucina ideato da Paolo Marchi.
Che cosa ha sottolineato questo avvenimento? Una rivoluzione copernicana: i migliori chef della città che non dorme mai pensano e cucinano italiano. Una volta questo accadeva con la Francia. Non sono italiani in trasferta, malgrado il nome. Mario Batali, ad esempio, ha sangue nostrano per via di un bisnonno arrivato nel Montana a fine ’800. L’altra metà è franco-canadese, ma per la cucina ha scelto la parte italiana e per impararla si è trasferito a Granaglione, sull’Appennino bolognese alla scoperta delle radici della sua famiglia. Forte di questa esperienza ha fondato un piccolo impero (con Lidia e Joe Bastianich). La perla della corona è il «Del Posto» che nell’ottobre 2010 ha ricevuto le quattro stelle da Sam Sifton, critico del New York Times. Non accadeva da 36 anni per un ristorante italiano. Qui «esercita» Mark Ladner ragazzo bostoniano, nato pizzaiolo, simile a Clark Kent nell’aspetto con i suoi enormi occhialoni ma pronto a trasformarsi in Superman nel suo regno in cucina: al «Del Posto» (che per questo piace poco alla Michelin) si soddisfano le esigenze di 400 coperti giornalieri con cibi (accompagnati da una splendida cantina) di alto livello: carne cruda con salsa tartufata, parmigiano reggiano, crescione selvatico; pansotti alla ricotta con asparago bianco e verde e burro di tartufo nero; caciucco.
La nuova cucina italiana «all’americana » ha mantenuto salde radici con la tradizione ma senza il folklore della tovaglia a quadretti e del fiasco di Chianti anche quando (come al Maialino di Danny Meyer) le tovaglie a quadretti ci sono. Quello che voglio dire è che anche questo particolare è il punto di approdo di una progettazione che comincia in prestigiosi studi d’architettura e di marketing. Il Maialino è una «roman style trattoria» all’interno del lussuoso Gramercy Park hotel dove Nick Anderer prepara tutto quanto fa classica Roma, dai tonnarelli cacio e pepe alla coda alla vaccinara.
Sono cuochi americani con l’Italia in testa. L’hanno imparata qui da noi, come Missy Robbins («A Voce ») la «Best New Chef» secondo il Food and Wine Magazine di luglio 2010, che ha compiuto un lungo viaggio iniziatico con tappa fondamentale «Agli Amici » di Godia alle porte di Udine, dove Emanuele Scarello e la sua famiglia regalano le migliori sensazioni del Nord Est. Michael White («Marea ») invece è stato sette anni al San Domenico di Imola accanto a Valentino Marcattili. White, per omaggiare il suo mentore Gianluigi Morini, fondatore del San Domenico, ha aperto l’Osteria Morini, enclave di sapori romagnoli della Grande Mela, che qui diventa una Grande Tagliatella al ragù o un Grande Tortellino. Comunque sia, qualcosa di buono, un sapore di casa nostra che ha conquistato New York. In alto i cuori (e le forchette).
Roberto Perrone
12 novembre 2011 08:48
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